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Una vacanza allunga la vita (sportiva)
Operaincerta, 14 giugno 2018
Ovvero di quando i rugbisti del mondo australe non si fermavano mai e di quando adesso decidono di fermarsi per allungare la carriera
Chi ha praticato sport a livello agonistico, non importa se di vertice o di base oppure semplicemente da seduto in poltrona davanti a uno schermo televisivo, sa che in un preciso momento dell’anno arriva il tempo della pausa. I campionati si fermano e i giocatori vanno in vacanza.
Ma non è sempre stato così. Fino a metà degli anni novanta del secolo scorso, cioè fino a prima che il mondo ovale si aprisse al professionismo, alcuni giocatori di rugby, piuttosto di fermarsi, raddoppiavano, nel senso che i migliori giocatori del sud del mondo, al termine dei loro campionati, venivano in Europa, Italia compresa, per trascorrere le loro estati giocando sui campi del Vecchio Continente. Negli ultimi anni, invece, la tendenza si è, per così dire, invertita e, adesso, i rugbisti “australi” non solo non raddoppiano ma, addirittura, alcuni di loro si fermano per un’intera stagione per poter allungare la propria carriera sportiva. Ma procediamo con ordine.
Nel decennio a cavallo tra la metà degli anni ottanta e dei novanta, lo abbiamo già scritto su queste pagine (Operaincerta n°118 del 14/05/2015), nel nostro campionato c’è stata un’immigrazione stagionale di giocatori australiani, neozelandesi e sudafricani.
E non si trattava di seconde o terze scelte: all’epoca venivano a giocare con le nostre squadre campioni del mondo del calibro dei neozelandesi John Kirwan (alla Benetton Treviso dal 1985 al 1989) e Craig Green (alla società trevisana del 1987 al 1991), o degli australiani David Campese (al Petrarca Padova dal 1984 al 1988 e poi fino al 1993 nell’Amatori Milano) e Michael Lynagh (Benetton, 1991-1996), oppure giocatori di primissimo livello come il sudafricano Hendrik “Naas” Botha (al Rovigo dal 1987 al 1993). Terminata la stagione dell’allora Super12 (l’attuale Super Rugby), questi campioni lasciavano temporaneamente i loro rispettivi club per giocare con le nostre squadre, dalle quali ricevevano un generoso “rimborso spese” che garantiva loro uno “stipendio” anche nei mesi in cui a casa loro non si giocava, cui si aggiungeva un’interessante esperienza di vita nel Vecchio Continente, esperienza che per qualcuno si è anche trasformata in qualcosa di più (Kirwan, ha sposato una trevigiana, Green, è rimasto a vivere a Treviso e solo parecchi anni dopo è tornato in patria).
Se da un lato i giocatori che arrivavano in Italia ci guadagnavano dal punto di vista economico, dall’altro, al rugby italiano la loro permanenza risultava utile per alzare il livello del campionato: per tecnici e giocatori di casa nostra il confronto con la storica abilità tecnico atletica degli avversari australi non poteva che dimostrarsi costruttiva.
Dal 1995, con l’avvento del professionismo, il viavai di giocatori non si è certo arrestato, al contrario è aumentato, ma sono cambiate le destinazioni. I giocatori di prima fascia non si sono più fermati a Treviso, Rovigo o Padova, dove invece sono arrivate le seconde e le terze scelte (a volte anche le quarte), ma sono andati a vestire, questa volta a tempo pieno (non più dopo aver disputato la loro stagione nel continente australe), le maglie dei ricchi club francesi e inglesi.
Sono ormai diverse decine i giocatori del sud del mondo che militano nelle squadre del Top14 o dell’Aviva Premiership (i campionati francesi e inglesi). E ogni anno ne arrivano di nuovi.
Facciamo qualche nome, giusto per dare l’idea dell’ampiezza del fenomeno, citando solo i più famosi: Ruan Pienaar, François Steyn,Schalk Burger e Bryan Habana dal Sud Africa; Dan Carter, Aaron Cruden, Ma'a Nonu, Joe Rokocoko, Malakaï Fekitoa dalla Nuova Zelanda, Tatafu Polota-Nau dall’Australia, Leone Nakarawa e Nemani Nadolo dalle isole Fiji. E l’elenco potrebbe continuare (quasi) all’infinito.
Naturalmente, più è lunga la carriera e più soldi si guadagnano. Così alcuni giocatori, evidentemente i più forti, hanno iniziato a pensare a come allungare la propria carriera, escogitando un sistema banale ma geniale al contempo: fermarsi per una stagione, o al limite andare a giocare nel campionato giapponese, dove si guadagna meglio che in patria e si fatica di meno (il livello è nettamente inferiore a quello del Super Rugby), e poi ritornare a giocare “sul serio”, più riposati, la stagione successiva.
In Nuova Zelanda sembra stia diventando un’abitudine. Nel 2012 ha preso un anno sabbatico Richie McCaw, all’epoca era definito il più forte giocatore al mondo, che ha approfittato della sosta per girare il mondo e ricaricare le batterie in vista dei mondiali del 2015, vinti con gli All Blacks. In prospettiva “mondiali 2015” anche Dan Carter, nel 2013, ha preso il suo anno (finto) sabbatico, rimpinguando il suo conto corrente andando a giocare in Giappone.
Un altro giocatore che ha deciso di fermarsi per un po’ (solo sei mesi) è stato l’estremo “tuttonero” Ben Smith, che ha rinunciato alle partite da luglio a dicembre dello scorso anno.
Stessa cosa pare stia pensando di fare anche un altro totem neozelandese, Kieran Read, anche lui in vista della prossima coppa del mondo, quella che si disputerà in Giappone nel 2019.
Nelle altre nazioni australi questa “abitudine” non si è ancora diffusa, ma ci sono federazioni che stanno iniziando a prenderla in considerazione in vista delle prestazioni richieste per la Nazionale (se gli atleti arrivano freschi al momento in cui devono impegnarsi per il proprio Paese rendono di più e meglio).
Ma non è finita qui, soprattutto in Europa, va di moda anche la “partita sabbatica”, soluzione attuabile esclusivamente dai club più ricchi, quelli cioè che possono permettersi una rosa talmente ampia che potrebbero schierare contemporaneamente due o più squadre, grosso modo di pari livello, e far scendere in campo, a seconda dell’importanza dell’incontro che si deve disputare, la prima, la seconda o la terza squadra. In questa stagione lo hanno fatto soprattutto i dublinesi del Leinster che, con 55 atleti sotto contratto, hanno potuto tenere a riposo i giocatori migliori nelle partite “facili” per poi schierarli in quelle più importanti. Non è un caso se il club irlandese quest’anno ha vinto sia la Champions Cup (l’equivalente della calcistica Champions League) che il Pro14 (il campionato cui partecipano le migliori squadre irlandesi, scozzesi, gallesi e italiane). E l’Irlanda, cui il Leinster dà molti uomini, ha vinto tutte le partite dell’ultimo Sei Nazioni.
“Una telefonata allunga la vita” era il tormentone di una vecchia pubblicità di Telecom. Oggi dovremmo invece dire, almeno per quanto riguarda il mondo ovale, che è una vacanza ad allungare la vita (sportiva).