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Fenomeni ovali

Operaincerta, 14 giugno 2017

 
Si dice che nel rugby si gioca in 15 e che il singolo non fa la differenza. Sembrerebbe vero. Eppure…

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Uno dei ritornelli che ci sentiamo raccontare, noi che frequentiamo abitualmente i campi da rugby, è che nel nostro sport si gioca in 15 e che il singolo non fa la differenza.
Nel calcio ci sono i Pelè, i Maradona, i Platini, i Del Piero, i Totti, nel rugby no. Se questi calciatori, e chissà quanti altri ancora, nella loro carriera hanno segnato più di un goal partendo dalla loro metà campo, magari dribblando mezza squadra avversaria, nel rugby non è possibile. Se a questi calciatori, e chissà quanti altri ancora, quando erano in campo bastava un guizzo per far vincere la propria squadra, nel rugby non può accadere
Allora vuol dire che veramente nel rugby si gioca in 15 e che il singolo non fa la differenza? Sembrerebbe di sì, eppure ci sono giocatori che, pur giocando perfettamente integrati con i loro 14 compagni, hanno una classe nettamente superiore agli altri e che, seppur non come si intende nel calcio o in altri sport di squadra, sono capaci di fare la differenza.
Il più grande, in tutti i sensi, è stato probabilmente Jonah Lomu, di cui abbiamo già parlato su questa rivista nel numero 137 del gennaio scorso (Un uomo travestito da tir).
Ma diversi sono stati i rugbysti che, almeno relativamente ad alcuni episodi, si sono dimostrati una spanna sopra i compagni.
Il neozelandese Dan Carter, attualmente in forza al Racing Metro di Parigi, è uno di questi. Apertura dal piede fatato, centrare l’acca, per lui, è sempre stato un gioco da ragazzi. E proprio da ragazzo il numero 10 neozelandese ha iniziato a calciare. La leggenda racconta che quando Dan era ancora un bambino il padre abbia appositamente acquistato un appezzamento di terra accanto a quello dove abitavano e lì ha fatto costruire una porta da rugby con pali regolamentari per evitare che il figlio continuasse a rompere i vetri delle finestre di casa. Occorre dire come, da quel momento in poi, abbia trascorso il suo tempo libero?
Il risultato sono due mondiali vinti con gli All blacks e il record di punti segnati a livello internazionale con oltre 1.600. Non si diventa fenomeni per caso, e quei pali esistono ancora e sembra siano diventati un’attrazione turistica.
Un altro numero 10 capace di fare la differenza è stato l’inglese Jonny Wilkinson.
Come Carter, anche Wilkinson ha messo a segno una quantità infinita di punti, tra mete e piazzola, ma il campione inglese si ricorda, oltre a questo, soprattutto per il drop (calciare il pallone dopo averlo lasciato rimbalzare sul suolo e facendolo passare in mezzo ai pali e al di sopra della traversa) all’ultimo secondo che è valso all’Inghilterra la vittoria nel campionato mondiale del 2003. Gli inglesi e i padroni di casa dell’Australia stavano giocando la finale e il risultato, quando mancavano pochi secondi alla fine del secondo tempo supplementare, era fermo sul 17 pari e sembrava che ormai fosse inevitabile, prendiamo a prestito un’espressione calcistica, la lotteria dei calci piazzati. E invece l’apertura dei bianchi prova un drop da 30 metri e centra i pali. Inghilterra campione del mondo (la prima, e finora unica, volta di una squadra dell’emisfero nord) e Jonny Wilkinson nella leggenda.
Ma non sono solo i calciatori a fare i fenomeni. Ci sono anche gli uomini di mischia.
148 presenze con la maglia degli All Blacks (100 da capitano) con una percentuale di vittorie del 90%, due mondiali vinti, tre volte insignito dalla federazione internazionale del premio di miglior giocatore dell’anno. Sono questi i numeri del neozelandese Richie McCaw. Basterebbe citare queste cifre per giustificare il perché, secondo alcuni, tanti, il terza linea tuttonero si deve considerare il migliore giocatore della storia del rugby.
Leader naturale in campo, ha ricevuto i gradi da capitano quando non aveva ancora compiuto i 24 anni, ha guidato gli All Blacks ai successi più prestigiosi, al record di vittorie consecutive (18) ed è riuscito nell’impresa di ricevere una sola ammonizione in tutta la sua carriera internazionale. Un primato crediamo imbattibile.
E tra gli italiani? Diego Domínguez, apertura dal piede buono, è il quinto miglior marcatore a livello internazionale con 1.010 punti e il primo ad essere arrivato a quota mille. È anche grazie a lui, alle vittorie arrivate con il suo contributo (non ultima quella sulla Francia a Grenoble che è valso alla Nazionale Italiana il titolo di Campione d’Europa 1997), se oggi l’Italia può disputare il Torneo delle Sei Nazioni. Dopo di lui il vuoto: l’Italrugby non ha più trovato un mediano di apertura che avesse la sua caratura e le sue qualità tecniche. A chi in questi anni ha indossato la maglia azzurra numero 10 è sempre mancato qualcosa.
Eppure bisogna ammetterlo: gli All Blacks senza Carter e McCaw hanno continuato a vincere, così come hanno fatto quando è venuto a mancare Lomu. Anche l’Inghilterra orfana di Wilkinson ha continuato a vincere e alla fine dello scorso anno ha eguagliato il record di vittorie consecutive della squadra neozelandese. E in fondo anche gli Azzurri, nonostante da tanti anni siano costretti a fare a meno di un “regista” del livello di Diego Domínguez, si sono presi qualche soddisfazione.
E allora, se tanto mi dà tanto, bisogna proprio ammetterlo: il rugby è il gioco di squadra per eccellenza, nel quale il singolo non può fare la differenza. Eppure, se ripensiamo a Lomu, Carter, Wiilkinson, McCaw, Domínguez…