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Non si parte

Operaincerta, 14 febbraio 2006

 
Maria Occhipinti e la rivolta di Ragusa del gennaio 1945

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Noi italiani, il 25 aprile festeggiamo la liberazione del nostro paese dall’occupazione nazista, giorno in cui Milano fu liberata e l’occupante cacciato oltre frontiera. Ma la liberazione dell’Italia non avvenne in un’unica giornata e nemmeno nel giro di pochi giorni. Ci furono zone del nostro paese che furono “liberate” molto prima del 25 aprile 1944.

Le forze alleate sbarcarono in Sicilia il 10 luglio 1943 e in modo tutto sommato facile e veloce riuscirono a risalire la penisola fino alle porte di Roma.

L’armistizio di Cassibile, l’8 settembre, aveva fatto credere alle genti del Sud che la guerra fosse finita e così ciascun militare si era sentito in diritto di poter lasciare il proprio corpo per fare ritorno a casa.

Evidentemente era solo un’illusione dato che tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 1944 cominciarono ad arrivare le cartoline precetto che ordinavano a tutti i giovani tra i venti e trenta anni di presentarsi ai distretti militari per ritornare a combattere, questa volta a fianco degli alleati e contro i nazifascisti, per la liberazione del resto d’Italia.

Per un giovane, essere chiamati al fronte, in un momento in cui il tuo paese è in guerra, è una cosa probabilmente normale e che si accetta perché così è. Tornare a casa pensando che tutto sia finito, cominciare a riassaporare la vita da civile e, poche settimane dopo, sentirti dire che bisogna riprendere “gavetta, cucchiaio e coperta” per tornare a combattere è sembrato alla maggioranza degli ex soldati una cosa inaccettabile. Così, quasi tutti i richiamati fecero finta di niente e continuarono la loro nuova vita.

Ma, si sa, quando la patria chiama l’uomo deve rispondere e se l’uomo non risponde lo stato chiama con più forza. In quel caso lo fece mandando i carabinieri a rastrellare di casa in casa i renitenti.

Il siciliano, il meridionale in generale, non è tipo da grandi opposizioni. Il proverbio “caliti juncu ca passa a china” [piegati giunco che sta passando la piena] rende bene quale sia il temperamento della gente del Sud.

Quella volta, invece, non fu così dato che solo il 20% degli uomini che dovevano essere richiamati si presentò ai distretti. Il resto dei richiamati si era dato alla macchia o si era scontrato, specie nel sud-est della Sicilia, e in questo aiutato anche dalle donne e dai vecchi dei paesi, con chi voleva rimandarlo al fronte.

Anche a Ragusa ci fu chi, ricevendo la cartolina precetto, fece finta di non riceverla; chi, vedendo arrivare i carabinieri, si nascose; chi, resosi conto che nascondersi non serviva a nulla, combatté per non partire.

La rivolta di Ragusa (e della provincia), battezzata come la rivolta dei “non si parte”, ebbe vita breve e una donna di 23 anni, al quinto mese di gravidanza, ne fu protagonista e simbolo.

Maria Occhipinti, questo il suo nome, era nata a Ragusa il 29 luglio 1921. Aveva studiato fino alla terza elementare e dopo, così come si usava a quell’epoca, aveva abbandonato la scuola per andare ad imparare il mestiere di sarta.

Fin dall’adolescenza si era sentita diversa rispetto alle coetanee ma ciò nonostante si era sposata a 17 anni, conducendo una vita uguale a quella di tante altre donne dell’epoca.

La guerra e la partenza del marito per il fronte avevano cambiato il suo modo di vivere: aveva cominciato ad uscire di casa, ad occuparsi di quelle cose di cui fino ad allora era stato il marito ad occuparsene. Aveva ripreso a studiare da autodidatta, aveva cominciato a leggere (I miserabili di Victor Hugo le aveva aperto gli occhi sul mondo dei diseredati), si era iscritta, tra lo scandalo di tutti, alla Camera del Lavoro e al partito comunista, rifiutando di sottomettersi solo per il fatto di essere donna.

Poi la guerra era finita, i soldati erano tornati a casa, le cartoline precetto avevano cominciato ad arrivate.

I giovani che erano appena rientrati a casa non avevano nessuna voglia di ripartire e le donne, pur non sapendo come, volevano tenere con loro i mariti e i figli. Ad ogni angolo della città si discuteva, nelle piazze si tenevano comizi e ovunque si gridava “non siamo carne da cannone”. Maria Occhipinti veniva spesso interpellata per dare il suo parere su quella o quell’altra proposta per evitare il richiamo.

La mattina del 4 gennaio, verso le 10, lei era in casa e si sentì chiamare dalle donne del quartiere. “Venite, venite sullo stradone, comare, voi che sapete parlare, voi che vi fare sentire e avete coraggio, venite a vedere che gran camion che c’è e si sta portando via i nostri figli”. Il camion era un grande camion militare su cui venivano caricati tutti i giovani che si trovavano in quel momento nelle botteghe degli artigiani. Maria si avvicinò ai carabinieri e cercò di convincerli a lasciare andare i giovani. Ma gli sbirri (così come li chiama la Occhipinti nel suo libro Una donna di Ragusa, edito da Luciano Landi Editore nel 1957 e poi riproposto da Feltrinelli nel 1976 e da Sellerio nel 1993 e da cui sono tratte le citazioni di questo articolo) si mostrarono inflessibili e allora Maria Occhipinti si sdraiò per terra, davanti alle ruote del camion, dicendo “Mi ucciderete, ma voi non passate”. Qualcuno tra i soldati disse che si doveva passarle sopra perché bisognava rispettare gli ordini. Nel frattempo altre persone, attirate dal trambusto, si erano avvicinate al camion e in poco tempo una folla enorme aveva circondato il camion. Le autorità, temendo il peggio, avevano ordinato di lasciare liberi i giovani che si erano dileguati in fretta.

Il gesto della Occhipinti aveva fatto il giro del paese e già la sera stessa tante persone erano andate a casa sua per ringraziarla e dappertutto non si parlava d’altro.

L’indomani, un sacrestano ebbe l’ardire di chiedere ad un ufficiale perché mai volevano richiamare i giovani, visto che questi erano ormai stanchi della guerra. L’ufficiale, per tutta risposta, aveva estratto dalla tasca una bomba a mano e l'aveva lanciata contro il sacrestano dilaniandolo.

Fu l’inizio della rivolta. Ovunque erano comparse armi e il quartiere detto “la Russia” fu preso dai rivoltosi, mentre il resto della città era rimasto sotto il controllo della polizia.

La mattina del 6 gennaio un gruppo di rivoltosi aveva tentato un blitz contro un posto di blocco all’ingresso di Ragusa. Lo scontro era durato fino al pomeriggio inoltrato, poi i militari si erano arresero.

La notizia aveva fatto il giro della provincia e la rivolta era divampata in città come Comiso, Vittoria, Giarratana, Monterosso e Agrigento.

A Ragusa, dopo un primo momento di festa da parte dei rivoltosi e di sbandamento da parte dei militari, gli scontri erano ripresi e i morti e soprattutto i feriti avevano cominciato ad essere numerosi.

La città, a parte la questura e qualche edificio, adesso era tutta in mano ai ribelli. Il pomeriggio del 7, però, erano arrivati altri militari venuti da fuori e l’8 gennaio l’ordine era stato ristabilito.

I ribelli furono arrestati, qualcuno riuscì a scappare, e per diversi giorni i soldati misero a ferro e a fuoco la città. Maria Occhipinti fu arrestata una settimana dopo, condannata e mandata al confino a Ustica, dove mise alla luce la figlia Marilena, e poi, per due anni, al carcere delle Benedettine a Palermo.

La rivolta della provincia di Ragusa ha fatto 18 morti e 24 feriti tra carabinieri e soldati e 19 morti e 63 feriti tra gli insorti.