ARTICOLI


L'uomo tamburo

Operaincerta, 14 gennaio 2006

 
Intervista ad Alfio Antico

image

Dovevo intervistare Alfio Antico alla fine del sound check, prima del suo spettacolo. Quando sono arrivato in teatro lui non c’era ancora ma sul palco troneggiava una specie di borsone a forma di ruota, grande quanto quella di un carro. Dentro c’è il suo tamburo, ho pensato.
Poco dopo è arrivato Alfio, mi ha chiesto di poter provare prima della nostra chiacchierata ed è salito sul palco. Quando ha aperto il borsone e ha tirato fuori quello che sembrava un tamburo mi sono detto che avevo pensato bene. E invece, sorpresa, quello che sembrava un tamburo, in realtà erano due tamburi l’uno incastrato nell’altro e, al loro interno, come una matrioska, c’erano tanti altri tamburi più piccoli e tutti diversi l’uno dall’altro.
Perché vi racconto questo episodio? Per dirvi che Alfio Antico è un personaggio pieno di sorprese e che la sua semplicità nasconde una profondità di pensiero inaspettata solo per chi si ferma al suo italiano parlato con un forte accento siciliano, ai suoi congiuntivi talvolta sbagliati, al suo aspetto un po’ trasandato.
Ci siamo seduti nel suo camerino e, senza aspettare la mia prima domanda, ha cominciato a raccontarsi.

Ma da quanto piove qua? Io adesso vivo a Ferrara, una città fredda piena di nebbia e umido, ma in questo momento qua è peggio. Ferrara è carina, ma ci sono momenti in cui m’accupo [mi sento svenire]. Eppure la nebbia ha anche il suo fascino. Io a volte, in mezzo alla nebbia, ho scritto delle cose meravigliose, che magari in Sicilia non mi sarebbero venute.
Io amo la Sicilia, però certe cose qui non riesco a scriverle. Vengo qui a passeggiare e poi quando me ne vado riesco a scrivere cose molto profonde. Per esempio, quando penso di scrivere un’immagine ispirata dalla parola stinnicchiato [steso in perfetto relax], se sono in mezzo alla nebbia, mi immagino la luce, la bellezza della Sicilia, con il caldo secco e asciutto e gli animali che riposano sotto una quercia o sotto un albero di carrube. E, in questa magica e profonda armonia, una farfalla che danza in mezzo al sole dentro un canto di cicale.
Questa non è una tarantella, è una grande armonia…

È un quadro.
Sì, è un quadro. Solo che, a volte, la gente non ha neanche il tempo di provare a capire certe immagini. Ma questi sono i temi della mia musica e io la musica la vivo, la scrivo, la soffro, ci piango, ci rido, ci dialogo, ci ragiono, mi c’incazzo.

Ci racconti la tua storia?
Quello che sono oggi l’ho sempre voluto, anche quando, da bambino, giocavo. Mio padre era molto rigido e voleva che facessi un altro lavoro mentre io volevo fare quello che faccio adesso.
Io ho fatto il pastore e non mi vergogno a dirlo, anche perché non si può nascondere visto che parlo spesso di pecore, di pascoli. È un mondo che conosco come “vero”, è un mondo che amo, anche se ormai è scomparso.
Fino a diciotto anni ho fatto il pastore e ti dico e confesso, con anima sincera, che mai sono andato a letto con il pensiero che l’indomani dovevo svegliarmi alle tre e mezzo o alle quattro perché dovevo mungere o dovevo cagliare. Mi svegliavo e pensavo a quello che sono oggi.
Poi ho avuto la fortuna di essere stato scoperto da Eugenio Bennato e da lì è partita tutta la mia carriera. Sono orgoglioso di aver fatto parte di Musicanova e di aver lavorato con Eugenio, un artista che già trent’anni fa faceva musica etnica.
Poi ad un certo punto ho scelto di abbandonare il suo gruppo e ho cominciato a fare dei concerti da solo. Eugenio mi ha dato molto, mi ha insegnato tante cose, ma sapeva che prima o poi lo avrei lasciato.
Poi sono passato al teatro, con Maurizio Scaparro, Giorgio Albertazzi, Massimo Ranieri, Pino Micol, e anche da questa esperienza ho avuto molto. La cosa di cui sono contento è che non ho mai avuto dei copioni da rispettare. Mi hanno sempre dato un canovaccio dentro cui potevo muovermi e improvvisare.
Certo, forse avrei potuto curare meglio la mia carriera, ma è meglio così perché alla vita privata ci tengo e voglio essere libero di andare a prendere un gelato al bar, cosa che, per esempio, Vasco Rossi non può fare.

Che cosa rappresenta, per te, il tamburo?
Io sono stato l’inventore dell’assolo con il tamburello. A volte mi chiedo se senza di me il tamburello avrebbe avuto la stessa importanza che ha adesso.
I miei tamburelli me li costruisco da solo, utilizzando un setaccio e della pelle di capra, che è un animale che conosco bene, perché conosco il suo modo di camminare, il suo verso, il suo modo di masticare l’erba, il suo ubbidirmi o disobbedirmi.
È il mio mondo e i tamburi ne fanno parte, fanno parte di me stesso, sono come dei bambini, sono degli strumenti. E quello che non riesco a scrivere nelle canzoni, lo scrivo con i disegni, gli intarsi, con cui li decoro.
Storicamente, nella cultura contadina, il tamburello è sempre stato considerato uno strumento minore. Con me hanno invece acquistato l’importanza che meritavano, assumendo un ruolo melodico, armonico, con cui comporre, come con un pianoforte o una fisarmonica.
Mia nonna, mi spiace non poterti far vedere una sua foto, suonava i tamburi per scacciare la paura, mentre mio nonno, che era un tipo molto spiritoso, suonava il piffero di canna. Uno zio di mamma, invece, suonava la chitarra, una chitarra strana che aveva fatto lui stesso e che aveva non so quante corde, forse una ventina.

Stasera suonerai senza fiati. Pensavo se ne sarebbe sentita la mancanza. Invece, ascoltando le prove, mi sono reso conto che la fisarmonica colma più che bene la loro assenza.
Perché Alessandro Moretti non è un semplice fisarmonicista. È uno che suona! Lui è diplomato al conservatorio e ha suonato tanta musica classica per fisarmonica.

Parliamo, allora, dei tuoi musicisti.
Quando lasciai Musicanova avevo iniziato a fare concerti da solo perché il pubblico mi conosceva per gli assoli. Per farli, studiavo delle frasi, dei temi.
Poi ho conosciuto Amedeo (Ronga) e abbiamo cominciato a fare dei concerti insieme. Ormai sono quindici anni che collaboriamo e insieme, tra tamburi, voce e contrabbasso, abbiamo sempre cercato qualcosa di diverso. Il contrabbasso è uno strumento un po’ sottovalutato perché è stato sempre considerato uno strumento di accompagnamento. Io invece lo considero anche uno strumento melodico.
Con Alessandro Moretti collaboriamo solo da un paio d’anni ma sono ugualmente contento per come siamo affiatati.
In realtà io non ho una formazione fissa. Domani potremmo anche suonare in quattro. E poi credo che per fare la musica popolare non occorra necessariamente una chitarra o un mandolino. Quello che è necessario è suonare. Anche il suono che fanno le pietre o i ceci in un setaccio è musica.
A me piacciono i suoni, la creatività e Amedeo e Alessandro sono due musicisti molto creativi.

Nella tua musica c’è una fusione di suoni e di generi.
Io non ho mai fatto Sciuri sciuri. Perché è un tipo di musica che non mi ha mai interessato. Se io dovessi proporre questa canzone, sicuramente la farei diversa da come siamo abituati a sentirla. La gente dovrebbe ridere, perché Sciuri sciuri è piena di doppi sensi. Nella nostra lingua c’è molta ironia.
Così come, se facessi Vitti ’na crozza la farei più impegnata, dato che racconta di uno che sta morendo tra l’indifferenza di tutti!! Ma ormai è così sputtanata che non si riuscirebbe a coglierne la bellezza.
In Fila fila ci sono i doppi sensi anche se si tratta di una ballata di pace, in maggiore, pur non essendo una vera e propria tarantella. Almeno non una tarantella di quelle che ballano i ballerini bardati con le fasce rosse e che ci danno il benvenuto a Taormina. Quello è il folklore cui siamo abituati, mentre noi abbiamo danze meravigliose, come le moresche, che purtroppo sono sparite.

Cosa c’è nel futuro di Alfio Antico?
Il futuro di Alfio Antico si chiama Tamburo Antico, pensa che fantasia, ed è una scuola, con sede a Portici, vicino Napoli, dove insegnare, tramandare, il mio modo di suonare. Per il momento la scuola è a numero chiuso e ha solo dieci allievi che vengono da tutta Italia. C’è un siciliano, un laziale, un lucano, una signora cinquantasettenne che viene da Benevento, eccetera.
Quando abbiamo deciso di fare la selezione per gli allievi, non abbiamo badato al fatto se sapessero suonare o meno. Abbiamo puntato esclusivamente sulle motivazioni perché credo che se uno non è fortemente motivato non può suonare il tamburo.
Il percorso è lungo dieci mesi e, alla fine, i più motivati, quelli che lo meriteranno, avranno il diploma che attesterà il fatto di essere stati allievi di Alfio Antico.
La cosa sta funzionando così bene che abbiamo tantissime richieste di partecipazione, non sappiamo come fare ad esaudirle.

La chiacchierata è durata quasi un’ora ed è il momento di andare a sedersi in poltrona. Il concerto sta per iniziare. Ci salutiamo e uscendo il suo manager, Emilio De Matteo, mi dice: La gente è convinta che Alfio faccia musica popolare e invece Alfio è la musica popolare. Lui potrebbe anche permettersi di cantare l’elenco telefonico, perché lui è popolare.

Già, proprio vero...