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Guerra e "guerra"

Operaincerta, 14 dicembre 2005

 
Il problema dell'immigrazione clandestina si deve risolvere nelle nostre teste, prima che a livello politico
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Qualche giorno fa, un amico veneziano, prendendo spunto dall’articolo “L’ultima spiaggia” di Marzia Basili, pubblicato sul quotidiano on-line “Aprile”, e che parlava degli immigrati morti sulle spiagge del Ragusano, mi faceva notare come il linguaggio e i dati presenti nel citato articolo fossero più da guerra che da articolo di cronaca.
Leggendone alcuni passi, “È sempre più evidente che il fenomeno migratorio richiede il superamento della logica “da assedio”, anche attraverso una vera e propria “politica estera dell'immigrazione” capace di alimentare processi di sviluppo nelle aree da cui provengono gli immigrati e di collaborare con i governi di tali paesi al fine di sostenere le capacità locali nel produrre benessere e occupazione che riducano le spinte migratorie” o “Secondo i dati di una rassegna stampa curata da Paolo Cuttitta dell'Università di Palermo, solo nel periodo gennaio-settembre 2005 sono stati recuperati nel Canale di Sicilia 52 cadaveri di migranti che tentavano di raggiungere l'Europa”, effettivamente potremmo pensare di essere davanti alla cronaca di un assedio da parte di orde di barbari (ma non è più o meno questo che alcuni organi di comunicazione e alcuni personaggi politici tendono a farci credere?) che fa vittime dall’una e, forse, dall’altra parte.
Sappiamo che non è così e, per fortuna, l’articolo della Basili ci spiega bene quali sono i fatti, da cosa sono causati e come, forse, si potrebbero evitare.
Però, a pensarci bene, quello che succede sotto le nostre coste, effettivamente, potrebbe somigliare a una guerra, “piccola” se rapportata al numero dei morti, “grande” in confronto alle vite messe in gioco, a come queste vite sono trattate una volta che riescono a raggiungere “l'isola”, che non è l’Isola dei Famosi ma che è diventata “famosa” (famigerata?) anche grazie al reportage di Fabrizio Gatti, pubblicato su “L’Espresso” di qualche settimana fa, a quello cui vanno incontro dopo che sono caricati su un aereo per essere rimpatriati “attraverso” la Libia, grazie allo sciagurato accordo tra il nostro Governo e quel gran “benefattore” del Colonnello.
Io vivo a Ragusa, la spiaggia dove sono venuti a morire quei poveri disgraziati è a pochi chilometri da casa mia, da casa nostra. In estate, in massa, andiamo a stenderci sulla sua sabbia e a bagnarci nel suo mare (è una delle più belle spiagge della zona), ma è triste, adesso, percepire che per tutti quelli che tra qualche mese andranno a piantarvi l’ombrellone, è come se non fosse accaduto nulla, come se quei morti esistessero solo perché ne ha parlato la televisione ma è come se fossero morti a Bagdad o in Indonesia o chissaddove.
Ha ragione Marzia Basili quando scrive che bisogna alimentare processi di sviluppo nelle aree da cui provengono gli immigrati ma, quando vado a passeggio per le vie del centro di Ragusa o quando guardo uno qualunque dei canali televisivi italiani, mi viene da pensare che, prima ancora (o almeno allo stesso tempo), bisognerebbe lavorare sulle “teste” degli italiani per provare a fargli cambiare modo di vedere, concepire e rispondere al fenomeno dell'immigrazione.