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Persone vere

Operaincerta, 14 ottobre 2005

 
Intervista a Enrico Erriquez Greppi
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Abbiamo incontrato Enrico Erriquez Greppi qualche ora prima del concerto. Lui era al centro del cortile della Fondazione Bufalino, ascoltando il soundcheck del gruppo. Gli abbiamo dato una copia del secondo numero di Operaincerta e gli abbiamo chiesto se potevamo intervistarlo. Erriquez ha dato un’occhiata veloce alle pagine e poi ci ha chiesto: “Dove ci mettiamo?”.
Ci siamo seduti ad un tavolino del bar di fronte e abbiamo cominciato la nostra chiacchierata.

Cominciamo dall’inizio. Come nasce la Bandabardò?
La Bandabardò ha una genesi abbastanza normale. Io avevo un progetto, un’idea da comunicare e pian piano ho scelto i collaboratori che, tranne uno subentrato due anni fa (Ramon che sostituito Paolino alle percussioni, n.d.r.), da dodici anni a questa parte sono sempre gli stessi. Abbiamo passato quasi un anno in sala prove per cercare di rendere questa mia idea una cosa fattibile. Non è facile comunicare energia con le chitarre acustiche, il contrabbasso, le percussioni. Abbiamo dovuto capire come fare.
Per i primi anni abbiamo suonato quasi esclusivamente in Toscana (è casa nostra), a parte qualche raid fuori. E abbiamo deciso di andare avanti sempre e solo con le nostre forze, senza mai chieder niente a nessuno. Questa è una politica un po’ romantica ma che col tempo ha dato i suoi frutti. Non ci ha mai aiutato nessuna televisione, poche radio, poche case discografiche, però adesso, dopo dodici anni, siamo ancora qua e ci chiamano un po’ ovunque a suonare, ormai anche in Germania, in Francia, in Spagna. Significa che abbiamo avuto ragione ad essere cocciuti.

Penso che siano in tanti a chiederselo: perché avete scelto questo nome?
Il nome è fondamentale per un gruppo. A me arrivano tanti “demo”, opere prime, di gruppi che hanno nomi incomprensibili, a volte in inglese o in dialetto, non facilmente memorizzabili. Il nome ti identifica e noi, nel nome, abbiamo cercato di racchiudere noi stessi: visto che facciamo musica, siamo una banda, una banda di amici, una banda di strada che usa strumenti bandistici. La musica della banda serve ad allietare le città dove suona, non certo a fare vedere quanto sei bravo, a dare sfogo ad una vanità che noi non abbiamo. La musica serve per essere in mezzo alla gente.
“Bardò”, invece, perché io ho passato vent’anni nei paesi francofoni e ho scoperto il lavoro di musicista grazie a musicisti francesi come i primi “Mano negra”, i “Negresses Vertes” o i cantautori francesi, che è gente molto più vicina al popolo di quanto non lo siano i cantautori in Italia o nei paesi anglosassoni. In Francia non esiste il divismo (o quasi), e il musicista è uno che sta in mezzo alle persone. È dunque un omaggio alla Francia, un riferimento al fatto di essere bilingui anche nel nostro modo di esprimerci, ed è stato riassunto nel nome di Brigitte Bardot, scritto però all’italiana.

È nata prima la vostra sigla o il vostro nome?
Quando abbiamo pensato a Bandabardò abbiamo subito pensato che avevamo già la sigla pronta… (Sorride, n.d.r.)

I vostri ultimi due dischi sono un po’ diversi dai precedenti, sembrano più pensati, meno da musica “per saltare”. Cos’è, state cambiando?
Noi non ci sentiamo cambiati. Stiamo andando in una direzione, naturale per noi, che è quella di cercare di rendere questa nostra voglia di festa, di fare concerti insieme, in maniera sempre più importante, sempre andando a suonare le cose che fanno comunque parte del nostro bagaglio culturale e musicale. Pian piano abbiamo cominciato a suonare rock con i nostri strumenti, abbiamo cominciato a dare qualche sfumatura di jazz, di funky, di ska alle nostre canzoni, perché tutto quello che impariamo lo mettiamo nella nostra musica. Ma il filo conduttore della Banda sono i nostri caratteri, è come ci presentiamo sul palco, da persone umili, vere, che non sono mosse dalla voglia di farsi guardare, anzi. E il nostro filo conduttore sono anche i testi, che sono ironici, autoironici, che cercano di far pensare, di, come si dice a Firenze, sfrucugliare l’immaginazione delle persone. Le storie che raccontiamo non si concludono, ma chi vuole va avanti, chi vuole si fa l’idea di chi siano i “sette re”, “Fernandez” e gli altri personaggi che introduciamo. È questo il grosso filo conduttore nel quale le persone si ritrovano. Guarda, il primo settembre eravamo in Toscana e siamo stati felicissimi di ritrovare gente che ci segue dall’inizio…

Questa è una terra di confine. Sulle nostre spiagge spesso arrivano barconi pieni di gente in cerca di libertà, lavoro, sogni. Ben che gli vada vengono rimpatriati in modo coatto, a volte vengono qua a morire. Poi ci siamo noi, occidentali bianchi, che cerchiamo di esportare la democrazia e la libertà e invece quotidianamente facciamo morti e feriti. Ma in che mondo viviamo?
Viviamo in un mondo agghiacciante. Un tempo, quando veniva fuori un problema, i giornalisti “sputtanavano”. Pensa al lavoro che ha fatto Michael Moore su George W. Bush con “Fahrenhait 911”. Anni fa sarebbe bastato per mettere sotto processo il signor Bush e magari per condannarlo all’ergastolo, vista la quantità di morti che ha prodotto la sua voglia di onnipotenza e di ricchezza. Oggi invece le persone conoscono i problemi, sanno per esempio che il Pentagono ha pubblicato un trattato scientifico nel quale si dice che tra dieci anni comincerà a scarseggiare l’ossigeno. Le persone lo sanno, come sanno che l’acqua comincia a mancare, che il sole non si deve prendere a certe ore. Però, pur di non affrontare i problemi, come gli struzzi, mettiamo la testa sotto la sabbia e se se ne parla si diventa noiosi. Vedere arrivare degli “extracomunitari” su una barca arrugginita dà fastidio a chi sta mangiando. E visto che le cose vanno male, ci si chiude in casa, nella nostra reggia (perché noi occidentali bianchi siamo dei multimiliardari rispetto ai tre quarti del pianeta) e si va avanti così. Si preferisce non pensare, non affrontare un problema, che magari sarebbe affrontabilissimo, si preferisce far finta di non sapere, far finta di non vedere il proprio vicino che sta male per non rovinarci la digestione. Questo è un grosso pericolo.

E invece, in che Italia viviamo?
L’Italia è uno specchio abbastanza fedele di questo mondo, nel senso che è stato dato il potere ad una cricca di persone veramente impresentabili, le quali hanno pensato bene di distruggere subito l’informazione, la magistratura, la scuola, che sono i centri nevralgici della nostra società, perché la scuola è il posto dove si formano gli uomini di domani, il nostro futuro, perché l’informazione sta alla base della democrazia. E i mass media sono stati usati per screditare tutto ciò. Uno oggi può dire una cosa in televisione e il giorno dopo può dire di non averla detta, può dire di non essere stato compreso, anche se invece ha detto tre parole comprensibilissime.
Questo è un paese, almeno in questo momento, molto egoista. L’Ulivo, con tutti i suoi errori, ha portato un po’ di benessere sociale ed economico. Ma la gente, nonappena ha avuto il suo giardinetto da difendere, ha votato a destra dicendosi “non verrà mica l’albanese di turno a prendersi quello che io ho messo via?”.
È stata una reazione molto brutta, quella di votare a destra e soprattutto quella gente lì. Io non escludo che si possano avere idee di destra, di centro, di sinistra, ognuno la pensa come vuole, ma questa destra qua è un delitto votarla e, per me, chi vota Berlusconi è complice di misfatti veramente gravi.
La cosa che fa sperare è che, gli italiani, i conti li sanno fare e, visto che la gente alla fine del mese non ha più i soldi, forse l’elettorato si sposterà, anche se questa è una cosa che fa incazzare perché è triste, se non altro per le motivazioni che portano a cambiare schieramento.
Mentre del fatto che in Parlamento ci siano tante persone che hanno fior di processi sulle spalle non gliene frega niente a nessuno. E invece chiunque dovrebbe essere disgustato nel vedere un pregiudicato che fa il Primo Ministro.

Le vostre canzoni raccontano di tanti personaggi. Uno che mi ha sempre incuriosito è Stefano Pinto. Ci dici chi è?
(Fa una faccia come se dicesse “e questa domanda da dove la tiri fuori?” e mi allarga un sorriso, n.d.r.) Stefano Pinto è stato per anni il nostro cane da guardia. Ogni progetto musicale ha differenti figure che gli gravitano attorno, che magari non vedi sul palco ma che svolgono mansioni anche essenziali. Lui era quello che ci riportava sempre alla nostra “professionalità”, era quello che ci ricordava sempre che “non si può fare le sei di mattina tutte le notti perché domani c’è da viaggiare cinque ore, c’è da presentarsi in un posto in cui c’è gente che t’aspetta, a cui devi fare un sorriso, e in cui devi essere te stesso ed avere energia fisica e mentale”. Insomma, Stefano Pinto era quello che cercava di tampinarci, di riportarci in furgone sani e salvi tutte le sere ad un’ora decente, per affrontare al meglio l’avventura del giorno dopo.
Ora non lavora più nel mondo della musica ma è sempre nei nostri cuori.
Però abbiamo vinto noi! (E si mette a ridere di gusto, n.d.r.)

Per finire: che progetti avete per il futuro?
Abbiamo appena festeggiato il centocinquantesimo concerto di questa tournée legata a “Tre passi avanti”, e per un disco che esce in Italia è una cosa piuttosto anomala; tutto il merito va al disco che è stato molto apprezzato e capito.
Adesso abbiamo dei progetti extramusicali. Per esempio, a gennaio, prenderemo il “Treno della memoria”, un treno che va da Roma a Cracovia passando per Auschwitz e Birkenau. Faremo questo viaggio insieme a studenti, gruppi di studio, ebrei anziani che hanno fatto lo stesso viaggio ma in altre condizioni, in vagoni blindati per andare a morire. Facciamo questo perché la musica non è soltanto canzonetta, non è soltanto serate in compagnia (anche se in un periodo, come quello che stiamo vivendo, un periodo di solitudini, in cui sei spinto a startene in casa, riuscire a creare un momento per andare in piazza e sorridere non è comunque una cosa da poco).
E poi cerchiamo di gratificarci andando a suonare nelle carceri o alla comunità di don Gallo, dove siamo stati l’altro giorno e abbiamo scoperto una persona che ha capito la vita in maniera clamorosa. Ci aspettavamo molto da lui e abbiamo ricevuto ancora di più. Don Gallo è una persona che riesce a tirar fuori i ragazzi dalla droga senza catene, senza cancelli, senza metadoni, ma semplicemente con la forza di volontà, ricreando in loro la forza di vivere e di sentire e dare affetto. Il nostro lavoro è pieno di cose extra concerto, di cui la gente non sa nulla perché non ne parliamo, perché è la nostra intimità. Ma che ci gratificano in maniera mostruosa. Ecco, per il momento siamo a raccogliere queste cose.
La discussione finisce, ci alziamo dal tavolo. Ci diamo appuntamento a fra qualche ora, lui con il gruppo sul palco a suonare, noi in platea a gioire per le loro canzoni. Ma non fa in tempo ad attraversare la strada che due ragazzi gli chiedono un autografo e poi una ragazza vuole una foto in sua compagnia, e poi un’altra e dopo un’altra ancora, e in mezzo autografi, strette di mano, sorrisi. E dalla faccia di Erriquez non traspare nessuna noia o fastidio. Anzi, sembra contento di questo contatto con il suo pubblico, con i suoi fan. Ci tornano in mente le parole che ci ha appena detto: “Siamo persone umili, vere”. Già!