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Gli assenti hanno sempre torto

Operaincerta, 06 agosto 2005

 
Pensieri e ricordi a briglia sciolte, dopo un’intervista mancata a Jane Birkin e in attesa del suo concerto catanese

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L’otto luglio, nell’ambito della rassegna “EtnaFest 2005” che da qualche anno viene organizzata a Catania, si è tenuto, all’Anfiteatro comunale di Gravina di Catania, Arabesque, lo spettacolo, con canzoni di Serge Gainsbourg, che da qualche anno Jane Birkin porta in giro per il mondo.
Operaincerta avrebbe voluto essere presente con una recensione dello spettacolo e, se possibile, con un’intervista all’artista, inglese anche se ormai da tantissimi anni francese di fatto.
Così, come tutte le volte in cui non siamo accreditati ma vogliamo comunque portare una testimonianza di qualche manifestazione culturale che riteniamo degna di tale nome, Operaincerta ha comprato un biglietto di ingresso e, il giorno dello spettacolo, appena dopo pranzo, mi sono messo in macchina alla volta di Gravina, nella speranza di poter intervistare Jane Birkin.
Lo spettacolo era previsto per le 21.15 e io sono arrivato a destinazione diverse ore prima, più o meno alle 17.30.
All’anfiteatro, infuocato come non mai (la pietra lavica, sotto il sole, diventa tremendamente calda e lo resta per tante ore anche dopo il tramonto del sole) c’erano solo alcuni tecnici intenti a mettere a posto le luci, a pulire la moquette del palco, a provare i microfoni.
Al primo signore con la faccia da manager mi presento come inviato di Operaincerta, lì per intervistare la Birkin. Mi sbaglio, perché il signore in questione non è un manager ma, siccome è gentile, mi indica una signorina a cui presentare la mia richiesta. La signorina in questione è, invece, una sottomanager perché, prima di potermi confermare o negare l’intervista, chiama un’ulteriore persona, il vero manager, che le dice “non se ne fa niente!”
Io provo ad insistere ma non c’è proprio nulla da fare.
E allora, visto che non c’è nulla da fare, che cavolo ci faccio all’anfiteatro comunale di Gravina di Catania più di tre ore prima dello spettacolo da recensire?
Nulla. Mi siedo sui gradoni, mi prendo il sole, e comincio a pensare alle cose mie.
E penso che luglio e agosto sono i mesi in cui le possibilità di assistere ad uno spettacolo di qualità, senza allontanarsi troppo da casa, si dilatano in modo incredibile.
E penso che, se negli anni scorsi ci si doveva “accontentare” di artisti la cui notorietà, seppur grande, non travalicava le Alpi, quest’anno la scelta si è ampliata e include star internazionali di prima grandezza (Gilberto Gil, Philip Glass), arrivando anche al paradosso di poter assistere per ben due volte, nel giro di due settimane e in due posti distanti tra loro una ventina di chilometri, al concerto di Noa.
E penso che erano altri i tempi in cui la musica si ascoltava alla radio, se ti piaceva quella che allora si appellava “commerciale”, oppure, se ti piaceva la musica “impegnata”, su audiocassette BASF di colore verde, in rigorosa monofonia (ma non ci facevi caso perché stereofonia era un termine che apparteneva al dominio della fantascienza) o, i più fortunati, su LP (mio figlio mi ha chiesto se fossero dei CD giganti!), il più delle volte iperconsumati dall’uso intensivo che se ne faceva.
E penso che a me piacevano i cantautori e che di quegli artisti conoscevi solo la voce, dato che non passavano quasi mai in televisione, e sui giornali del tempo raramente si parlava di loro. A volte capitava che sul Secondo (Rai Tre, le TV commerciali e i “consigli” per gli acquisti non esistevano ancora), la sera tardi, passasse mezz’ora di uno spettacolo di De Gregori o di Venditti e allora si restava alzati fino a quell’ora (a quei tempi la sera si usciva presto e si andava a letto dopo le 22.30) per non perderci quelle chicche. I più audaci tecnologicamente, quelli con più inventiva, piazzavano il microfono del loro “Geloso” o del loro “Castelli” (Sony, Aiwa, Pioneer erano marche o sconosciute o inarrivabili) davanti alla cassa (si chiamava altoparlante) del televisore (il più delle volte lo si teneva in mano, con il braccio teso in direzione dell’altoparlante, immobili per tutta la durata della trasmissione (nonostante l’anchilosarsi del braccio e i crampi ai muscoli sempre in agguato), sperando, pregando, che nessun rumore arrivasse dalla cucina, che tuo padre o tua madre non entrassero in soggiorno. E se tutto fosse andato bene, se il nastro non si fosse bloccato, se il microfono avesse registrato bene, l’indomani avresti potuto andare fiero del tuo primordiale bootleg.
E ricordo che la prima volta che ho visto De Gregori è stato nel 1982 (album Titanic) a Ravanusa (provincia di Agrigento). Neopatentato, sono partito dopo pranzo (ancora una volta…), con la Fiat 850 bianca di mio padre, insieme alla mia sorellina poco più che tredicenne, per quell’avventura. Perché, se per Guccini attraversare la via Emilia significava andare nel West, il nostro West cominciava appena fuori dalla provincia di Ragusa: il dialetto così diverso da risultare a tratti incomprensibile, le strade, man mano che ci si “addentrava” nel centro della Sicilia, che si facevano sempre più strette (la battuta che correva a quei tempi era “se gli americani le loro strade le chiamano street (si pronuncia striit, che in dialetto siciliano vuol dire strette), le nostre come le chiamerebbero?”), le facce della gente (ma credo sia solo suggestione) sempre più minacciose.
E penso che siamo arrivati allo stadio (al campo, perché più che a uno stadio così come siamo abituati a intenderlo oggi, con tribuna coperta e fondo in erba, somigliava ad un campo sterrato con due file di gradoni che facevano da tribune; d’altra parte che cosa ci si può aspettare da una cittadina di poche migliaia di abitanti con una squadra che se va bene gioca in prima categoria?) nel tardo pomeriggio. Ci siamo riempiti la pancia con due panini e abbiamo aspettato, insieme a qualche altro centinaio di fan, l’inizio del concerto. Concerto memorabile, forse più per tutto il contorno che per il concerto in sé. Ma le occasioni di vedere qualcosa erano così rare che bisognava accontentarsi.
Si stava meglio quando si stava peggio? Non credo proprio…
P.S.: Il concerto della Birkin è cominciato con mezz'ora di ritardo ma è stato molto bello. Lei ha cantato tutte le più belle canzoni di Gainsbourg, riarrangiate da Djamel Benyelles, un violinista di origine algerina veramente eccellente, accompagnata da Fred Maggi al piano e da Aziz Boularoug alle percussioni. Ma adesso, dopo questo tuffo nostalgico nel passato, del concerto di Jane Birkin, dei nuovi colori che sono stati dati alle canzoni di Serge Gainsbourg, delle atmosfere che sono state create sul palco, grazie alla bravura e alla sensualità della Birkin e ai virtuosismi dei tre musicisti, preferisco non parlare. D’altra parte, come si dice?, gli assenti hanno sempre torto.